“La teriaca (espressione derivante dal termine greco antico thériakè, ovvero antidoto) è un preparato farmaceutico dalle supposte virtù miracolose di origine antichissima. La sua composizione ha avuto delle variazioni nel tempo, trasformandosi da rimedio contro i veleni a rimedio per combattere numerose malattie. Le teriache del XVI, XVII e XVIII secolo erano composte in prevalenza da carne essiccata di vipera, valeriana, oppio, pepe, zafferano, mirra, malvasia, e polvere di mummia. Fu considerata anche una cura per la Peste Nera. A tal fine, alla teriaca veniva aggiunta la melassa, uno sciroppo che si ottiene dalla lavorazione dello zucchero. Tuttavia, affinché funzionasse, il preparato doveva riposare per un periodo di almeno dieci anni, in modo tale da permettere la maturazione adeguata dei lieviti contenuti nello sciroppo e nelle altre colture.”
Da scartare.
Non avevo dieci anni di tempo. Tra l’altro, se si esclude
l’oppio, non avevo neppure nessuno degli ingredienti necessari. Polvere di
mummia. Carne essiccata di vipera. Dove cazzo la rimediavano la carne essiccata
di vipera? Quanto costava all’etto? E la polvere di mummia? Come funzionava?
C’era un rivenditore autorizzato?
Che secolo del cazzo, il quindicesimo.
Andai avanti con la cura successiva.
“Sovente veniva
utilizzata una terapia che, diversamente da buona parte di quelle propinate da
medici e ciarlatani, non richiedeva esborsi economicamente rilevanti: urine
umane venivano raccolte in un’apposita sacca di cuoio, la quale veniva
successivamente appesa al collo del malato. Nonostante la stravaganza, i medici
ritenevano che tale pratica fosse idonea a tenere lontano il flusso
pestilenziale.”
Questa ci poteva stare.
Andai in camera. Sul comodino avevo una bottiglia di Jack
vuota a metà, che era avvolta in una sacca di cuoio promozionale sulla quale
era ricamato il logo del brand. Sfilai l’astuccio di cuoio. Buttai giù una
generosa sorsata di whisky bevendo direttamente a canna, lasciai la bottiglia
sul comò e tornai in cucina con la sacca. La gettai sul tavolo. L’avrei
riempita in un secondo momento. Presi una bottiglia d’acqua e attaccai a bere,
poi continuai a leggere.
“I re potevano
servirsi di un trattamento molto dispendioso, in forza al quale dei preziosi
smeraldi venivano frantumati e sbriciolati all’interno di un mortaio, nel quale
venivano poi miscelati con acqua e fatti bere al malato. Talvolta la preziosa polvere
veniva mescolata con varie pietanze, oppure semplicemente ingoiata.
Quest’ultima somministrazione era tuttavia molto pericolosa. Mangiare questa
pietra è molto simile ad ingerire frammenti di vetro schiacciati, i quali
possono facilmente generare ferite e conseguenti emorragie interne.”
Da escludere.
Anche in questo caso mancava la materia prima.
“Le stanze che avevano
ospitato gli appestati venivano purificate posizionando una ciotola colma di
latte fresco oppure un piatto pieno di cipolle crude al centro del locale.”
Assolutamente da fare.
Mi spostai verso il frigo e spalancai il portellone. Un
cartone di latte scaduto, un cartone di latte scaduto e addirittura un terzo
cartone di latte scaduto. Da poco più di due mesi. La ricetta parlava di latte
fresco, ma feci spallucce e li cacciai comunque fuori dal frigorifero, che
tanto sarebbero stati da buttare. Tentare era gratis. Trovai anche una retina
piena di cipolle rosse nel carrellino accanto al lavandino. La presi e la
poggiai sul tavolino, accanto ai tre cartoni di latte. Cacciai fuori una
scodella dalla credenza. Lasciai sul tavolo pure quella. Tornai a leggere.
“Il salasso era una
pratica medica particolarmente diffusa a partire dall’800 e che è stata usata
fino alla fine del diciannovesimo secolo, e consisteva nel prelievo di
significative quantità di sangue da un paziente col fine di ridurre l’apporto
di sangue nelle sue arterie. Si tratta di un metodo comune per il trattamento
dei malati, che infatti è stato utilizzato per una vasta gamma di disturbi. Per
contrastare la peste, il salasso veniva praticato mediante l’applicazione di
sanguisughe sul corpo del malato. All’epoca della Peste Nera, tuttavia, non
tutti potevano permetterselo. Molte persone si tagliavano le vene e lasciavano
che il sangue drenasse in una ciotola. Il dolore non era il problema maggiore,
rappresentato dal rischio di infezioni, amplificato dalle scarse condizioni
igieniche tipiche dell’epoca.”
Pure questa da escludere.
Niente sanguisughe nel cassetto delle cianfrusaglie. Lame e
coltellacci ne avevo, però dubitavo che la mia mano fosse abbastanza ferma da
tagliare le vene di mio cugino senza recidergli direttamente una mano.
La prossima volta che sarei andato a far spesa, avrei fatto
bene a comprare carne essiccata di vipera, polvere di mummia, sanguisughe e
qualche bello smeraldino, che dopotutto non si sa mai.
La spesa intelligente.
“Quanto segue
rappresenta un metodo molto diffuso a partire dal sedicesimo secolo, quindi non
contestualmente alla Morte Nera, ma in presenza di epidemie successive.
L’intero rituale venne ribattezzato come il “metodo Vicary”, in onore al medico
inglese che lo inventò, Thomas Vicary. In primo luogo, era necessario spiumare
il didietro di una gallina, il quale veniva successivamente legato ai linfonodi
gonfi della persona malata. Tale fattispecie richiedeva l’ausilio di un pollo
vivo. In un secondo momento, quando anche l’animale veniva contagiato,
bisognava lavarlo accuratamente e riposizionarlo ancora una volta sul paziente.
Tale procedura andava ripetuta fino a quando uno solo dei due soggetti (il
pollo e l’appestato) guariva completamente. Contrariamente a quanto sia facile
pensare, questa tecnica era piuttosto diffusa. D’altronde Vicary era un medico
di fama, al servizio dei Tudor, tant’è che ancora oggi si svolge con cadenza
annuale una lezione speciale in suo onore presso il Royal College of Surgeons
in Inghilterra. La conseguenza di tale prassi, tuttavia, fu che anche i polli
divennero un veicolo della malattia.”
Niente da fare.
Lì per lì mi sembrava una buona tecnica, nulla da ridire, tuttavia
non avevo un pollo, quantomeno vivo. Leggendo questo metodo Vicary,
paradossalmente, mi venne una voglia fottuta di pollo al forno. Se non
ricordavo male, dovevo avere un polletto nel congelatore, uno di quelli
surgelati che compri all’alimentari indiano per qualche euro. Verificai.
Effettivamente c’era. Era duro come una pietra. Lo cacciai fuori dal freezer,
rimossi la plastica azzurra che lo avvolgeva e lo lasciai a scongelare su di un
piatto di coccio vicino al lavandino.
Continuai a leggere.
“Un’altra prassi
diffusa prevedeva l’incisione dei linfonodi infiammati sotto le ascelle o
nell’inguine dei malati di peste. Tale apertura veniva praticata con lo scopo
di permettere alla malattia di abbandonare il corpo infetto. In un secondo
momento veniva applicata, direttamente sulla ferita, una miscela composta da
resina, radici di fiori, ed escrementi umani. Le zone trattate venivano
delicatamente avvolte in bende.”
Ni.
L’idea mi pareva pessima. L’ultima cosa che volevo fare era incidere
i bubboni di mio cugino, raccogliere i miei escrementi e spalmarli sulle ferite
come nutella su una fetta di pane, però feci un attimo due conti, e non è che
avessi molti piani B. Tutto ciò su cui potevo contare fino a quel momento erano
una sacca di cuoio piena di piscio e una ciotola con cipolle e latte scaduto.
Mi pareva poca roba. Di certo non sarebbe stata la prima cosa che avrei
provato, però poteva essere il mio asso nella manica.
“In alternativa si
incidevano le pustole e nella ferita veniva inserito un ferro incandescente. Se
il malato non moriva di peste, sovente rimaneva vittima di questo trattamento.”
Ni pure questo.
Mi fermai a riflettere. Se fossi arrivato a dover incidere
le pustole di Pitto con un coltello, cosa avrei fatto dopo? Merda o ferro
rovente? Non credo che esista una risposta giusta.
Merda o ferro rovente?
Merda o ferro rovente? Merda o ferro rovente?
Nel dubbio presi il ferro da stiro e lo misi accanto alle
altre cose sul tavolo. Tirai fuori pure un paio di coltelloni con la lama bella
affilata. Feci per continuare a leggere, quando mi venne in mente di cercare
nel cassetto dei medicinali qualche lassativo. Trovai uno sciroppo con effetto
emolliente. Misi nel mucchio pure quello.
“Sulle tumefazioni
violacee veniva strofinato burro o lardo, mentre la fronte del malato veniva
cosparsa di sangue di cuccioli o, in alternativa, di piccioni.”
Si poteva fare.
Per quanto riguardava il lardo nisba, ma mezzo panetto di
burro nel frigo ce l’avevo. E in un incredibile lampo di genio mi venne in
mente che disponevo pure del sangue di cucciolo. M’infilai il giacchetto di
pelle, paglia in bocca, pantofole, busta di plastica della spazzatura, chiavi
di casa e uscii fuori. Erano le sei e mezza ma sembravano le quattro di notte.
Raggiunsi il Pandino di Pitto. Notai che aveva lasciato le chiavi attaccate.
Poco male. Se qualcuno aveva il coraggio di rubarsi quella macchina,
significava che ne aveva veramente bisogno. Aprii lo sportello, spensi i fari e
presi le chiavi. Raggiunsi la carcassa del gatto. Aveva un pezzo di quello che
supponevo essere l’intestino di fuori, coperto da una schiera di formiche.
Poggiai la busta a terra, tenendo l’apertura spalancata con le mani e infilai
dentro il cadavere con un calcio piazzato bene.
Chiusi il sacco e tornai verso casa. L’aria era fresca.
Mi voltai e vidi un grosso drago giallo che volava nel
cielo. Non un dragone di quelli grassottelli in stile medievale; uno di quei
draghi cinesi, simili a grosse serpi. Una roba non troppo lontana dal drago
Shenron, quello di Dragon Ball. La bestia mi guardò per un momento con due
occhi infiammati, fece una smorfia strana, qualcosa che potrebbe essere
scambiata per un accenno di sorriso, poi sparì dietro la luna.
Mi capitava spesso di vedere i draghi.
L’effetto degli acidi era ancora lontano dall’essere
passato.
Rientrai a casa.